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La trombosi venosa profonda e l’embolia polmonare costituiscono due manifestazioni cliniche del tromboembolismo venoso, un disturbo cardiovascolare molto comune. Con Egidio Imbalzano, professore associato del Dipartimento Medicina Clinica e Sperimentale dell’ Università degli Studi di Messina, analizziamo i sintomi, le differenze, i fattori di rischio, la prevenzione e il trattamento di queste patologie che, da qualche tempo, possono contare anche sui nuovi farmaci anticoagulanti orali.
Trombosi venosa profonda ed embolia polmonare. Quali sono le differenze?
La trombosi venosa profonda, è un coagulo che si verifica a livello delle vene degli arti inferiori. I fattori di rischio sono svariati: eredo- familiari e genetici o acquisiti nei casi di obesità, lungo allettamento, chirurgia (specialmente ortopedica). Il tasso di incidenza della TEV è più elevato nelle donne in età fertile (probabilmente a causa dell’uso di estroprogestinici) e in gravidanza.
L’embolia polmonare è una migrazione embolica di un frammento di trombosi delle vene degli arti inferiori che confluisce essenzialmente attraverso tutto un percorso anatomico fino alla cavità destra del cuore, imbocca l’arteria polmonare e si ferma nelle ramificazioni delle arterie polmonari.
Stiamo parlando della stessa malattia con due aspetti diversi: una ha una localizzazione prevalente negli arti inferiori, l’altra ha una localizzazione a livello polmonare.
Quali sono i sintomi?
Per quanto riguarda trombosi venosa profonda, l’elemento patognomonico ovvero il sintomo caratteristico che permettere la diagnosi certa della malattia, è l’edema degli arti inferiori. Solitamente ciò avviene su un solo arto perché, difficilmente, i sintomi si presentano su entrambi gli arti. In questo caso, la presenza di un edema inspiegabile, può fare pensare a una trombosi venosa profonda. Individuata e definita la diagnosi, viene fatto un esame diagnostico l’Ecocolordoppler vascolare che ha una capacità diagnostica pari al 100%.
Per quanto riguarda l’embolia polmonare, si tratta di una patologia più subdola. I sintomi che suonano come campanelli d’allarme possono essere: la dispnea (ovvero una difficoltà respiratoria) e dolore toracico. Altre volte, la diagnosi diventa di “presunzione” solo perché il paziente presenta una trombosi venosa profonda. Le due patologie “si parlano” e spesso, fare la diagnosi di trombosi venosa profonda, significa indagare anche per embolia polmonare.
La prevenzione
Esiste una prevenzione primaria. In alcuni soggetti esposti al rischio, ad esempio quelli con più comorbilità o quelli che, per altre patologia dovessero ricevere un ricovero in ospedale, si utilizza una terapia con eparina a basso peso molecolare per un tempo più o meno standardizzato. Alla fine, durante il periodo di allettamento o a prescindere da questo, questa categoria di soggetti, segue una terapia di prevenzione farmacologica. Esiste anche un altro tipo di prevenzione che riguarda i soggetti portatori di varici negli arti inferiori. In questo caso si può utilizzare la terapia elastocompressiva (quindi le calze elastiche), che hanno una duplice funzione: contenere l’evoluzione della malattia varicosa stessa e prevenire la trombosi venosa.
I sistemi per una prevenzione primaria ci sono ma, devono essere pensati in tempo.
La terapia
Negli ultimi anni la terapia ha subito mutazioni importanti. Oggi si usano nuovi farmaci anticoagulanti che non hanno la necessità di un controllo di laboratorio routinario e che quindi hanno un dosaggio fisso. In questa nuova famiglia di farmaci anticoagulanti, quattro sono quelli utilizzati più comunemente. Due di questi funzionano in combinazione con l’eparina (si inizia sempre con l’eparina e poi si passa al nuovo anticoagulante orale), gli altri due invece, hanno il cosiddetto “single drug approach”. La terapia può partire da subito con il farmaco anticoagulante che si assume oralmente, quotidianamente e per un certo periodo di tempo, ad un dosaggio un po’ più alto e quindi, nella fase acuta della malattia. Una volta stabilizzato il dosaggio, si continua la terapia per 3-6 mesi. In alcuni casi specifici, ad esempio nei soggetti che mantengono alto un rischio di recidiva, questo tipo di trattamento anticoagulante può essere ancora più prolungato (oltre sei mesi e sine die).
Una diagnosi tempestiva consente di avere, nella maggior parte dei casi, una qualità di vita eccellente. In modo particolare, i nuovi farmaci consentono una gestione molto più semplice, con controlli sporadici nel tempo soprattutto, in pazienti stabili e che non hanno altre comorbilità importanti. In un soggetto giovane, l’episodio di embolia polmonare, vede spesso una risoluzione completa del trombo e, il paziente, potrebbe non avere alcuna problematica particolare. In altri casi, potrebbero invece insorgere delle complicanze. La più temuta è la CTEPH, l’Ipertensione polmonare post tromboembolica che determina un residuo trombotico a livello arterioso polmonare con un aumento della pressione polmonare. Ripercuotendosi sul cuore, porta ad alcuni sintomi, come la dispnea, che compromettono la qualità della vita.
Le nuove frontiere: gli anticoagulanti orali
Si tratta dei cosiddetti NOAC o NAO. A differenza dei trattamenti con i vecchi anti coagulanti che portavano una serie di problematiche che il paziente accettava poco e male oggi, l’assunzione di una compressa di questo tipo, viene accettata più volentieri. Un elemento in più che facilita anche il medico nella cura del paziente e nella prevenzione delle recidive.
Articolo di Marianna Grillo