Le spondiloartriti si differenziano in base all’interessamento della colonna vertebrale e delle articolazioni sacroiliache (forme assiali) o meno (forme periferiche).
Le spondiloartriti periferiche includono la forma psoriasica e non-psoriasica che hanno delle opzioni terapeutiche che allo stato attuale sono limitate.
Le forme non-psoriasiche possono essere legate a malattie infiammatorie croniche intestinali, o essere di tipo reattivo spesso conseguenti a infezioni gastrointestinali o genito urinarie di particolari germi come il Campylo bacter, la Chlamydia, Salmonella, Shigella, Yersinia, etc.
Le forme periferiche interessano le articolazioni soprattutto degli arti inferiori e sono in modo caratteristico asimmetriche, colpendo un solo lato per tipo di articolazione, le entesi (entesiti) cioè le inserzioni dei legamenti (come quello achilleo) e/o un intero dito (dattilite).
Dal 12 al 30% di tutte le spondiloartriti sono periferiche colpendo meno dell’1% della popolazione generale. La maggior parte dei pazienti riesce ad avere sollievo dalla terapia con antiinfiammatori non-steroidei ma spesso necessitano di un ulteriore trattamento.
Certamente negli ultimi anni l’uso dei farmaci biologici ha drasticamente migliorato la risposta terapeutica dei pazienti affetti da questa patologia ed ha soppiantato praticamente l’uso della salazopirina unico farmaco in grado di dare un certo miglioramento prima dell’avvento della terapia con biologici. Quest’ultimi sono dei farmaci in grado di bloccare l’azione di varie sostanze come il TNF, l’interleukina 17, l’interleukina 12 e 23.
Gli anti-TNF sono l’infliximab, l’etanercept, l’adalimumab, il certolizumab e il golimumab. In particolare l’azione degli anti-TNF si è mostrata più efficace nei pazienti con spondiloartrite sieronegativa trattati precocemente rispetto alla prima insorgenza dei sintomi ma ancora poco si conosce sulla percentuale di remissione a distanza di tempo che permetterebbe di ridurre i costi complessivi e soprattutto l’uso di farmaco non necessario risparmiando ai pazienti un trattamento non utile.
I colleghi della università di Ghent (Belgio) su una rivista specialistica di settore (Arthritis&Rheumatology maggio 2018) hanno esplorato proprio questo aspetto in pazienti affetti da spondiloartrite periferica trattati con golimumab.
I pazienti studiati sono stati solo 49 l’82% di pazienti che rispondevano al Golimumab e che andavano in fase di remissione clinica. La remissione clinica veniva raggiunta dopo sei mesi di trattamento per la maggior parte dei pazienti anche se il 38% dei pazienti necessitava prima del risultato clinico di circa due anni di terapia.
Proprio dopo aver raggiunto la fase di remissione clinica secondo criteri ben precisi veniva sospeso il trattamento e poco più della metà dei pazienti ha mantenuto la remissione clinica per almeno 18 mesi senza la terapia con il golimumab.
Questo studio è importante perché fa intravedere la concreta possibilità di sospendere, almeno in alcuni pazienti, la terapia con anti-TNF.
Questo dato ha risvolti etici e gestionali non indifferenti. Infatti, ridurre la spesa, sospendendo in modo appropriato un farmaco, rende disponibile risorse che possono essere utilizzate per altri pazienti e ultimo ma non meno importante permette di trattare il paziente affetto da spondiloartrite per un tempo adeguato evitando terapie prolungate e quindi eccessive e immotivate, riducendo conseguentemente anche i possibili eventi avversi da farmaci.
Ricordiamo a tutti che un solo studio rende percorribile l’ipotesi ma per parlare veramente di evidenza applicabile nella pratica clinica di tutti i giorni sono necessari altri studi di conferma.