L’assistenza sanitaria ai migranti, con particolare riferimento alla prevenzione, alla cura delle patologie infettive del fegato e all’obiettivo di eliminazione del virus HCV (Epatite C) in questa popolazione, attraverso un modello socio-culturale integrato, fondato sulla sinergia tra medici, operatori del territorio, rappresentanti delle varie etnie, mediatori culturali e istituzioni, è stato il tema portante dell’incontro che si è svolto ieri a Palazzo delle Aquile, a Palermo.
Il progetto, che ha la ratio di rispondere ai bisogni di salute della popolazione migrante africana che giunge in Sicilia, priorità anche per l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), si sostanzia nella presa in carico dei migranti, attraverso lo screening, la cura ed il follow-up e prende le mosse dalla sinergia metodologica, avviata tre anni fa, tra l’Azienda di Rilievo Nazionale ed Alta Specialità (ARNAS) di Palermo, la Sezione di Gastroenterologia ed Epatologia del Policlinico Universitario e l’ASP 6 di Palermo.
I referenti ed ideatori del progetto, dr. Tullio Prestileo, responsabile dell’unità dedicata alle “popolazioni migranti e vulnerabili” dell’Arnas; la dott.ssa Ornella Dino, dirigente medico Asp 6, che dal 2005 si occupa di migranti e dal 2014, nell’ambito del piano di contingenza regionale, coordina l’assistenza sanitaria ai centri di accoglienza di Palermo e provincia; il prof. Antonio Craxì direttore dell’UOC di Gastroenterologia ed Epatologia del Policlinico di Palermo e ordinario dello stesso Ateneo ed il prof. Vito Di Marco ordinario di Gastroenterologia della stessa Università, insieme ai mediatori culturali e alle istituzioni si sono confrontati sugli esiti raggiunti e sulla possibilità di migliorare ulteriormente un percorso che può senz’altro ambire ad eliminare il virus Epatite c tra i migranti.
Il prof. Antonio Craxì evidenzia: “ Questo incontro ci permette di inquadrare la situazione relativa alle patologie infettive del fegato, nella specie Epatite B e C, entrambe capaci di determinare infezione cronica e danno permanente al fegato. I migranti provengono per lo più da aree ad alta infezione cronica e nel periodo in cui rimangono nel nostro territorio possono essere curati se i virus vengono identificati. Con i regimi di SPT (Straniero Temporaneamente Presente) questi pazienti possono ricevere, nell’ambito del SSN (Servizio Sanitario Nazionale), tutti gli accertamenti preliminari e vedersi programmato e riconosciuto un percorso di cura”.
“E’ importante – continua Craxì – intervenire nella finestra temporale in cui i migranti rimangono nei centri di accoglienza. La possibilità di identificare il virus HCV con test di pronta esecuzione permette di iniziare un trattamento basato su una terapia orale, in sostanza due capsule per otto settimane, senza la necessità di particolari controlli, con l’accertamento a fine percorso, della guarigione. I migranti possono essere trattati con successo, quindi, ma il sistema deve avere un riflesso immediato senza tempi morti, ad esempio tra il prelievo e la somministrazione della terapia. Altra questione è quella dell’apatite B che invece non può essere eradicata, ma contenuta attraverso farmaci già disponibili da molti anni, dunque in questo caso si tratta, sempre nel contesto migranti al punto di arrivo, di iniziare un cura che va proseguita a lungo termine”.
“La nostra esperienza – sottolinea Tullio Prestileo – mette in evidenza la possibilità di garantire alla popolazione migrante un’effettiva fruizione dei servizi sanitari e la tutela del diritto alla salute del singolo migrante e, quindi, dell’intera collettività. Questo incontro ha rilevato la necessità di proseguire il percorso avviato, ai fini di realizzare l’obiettivo concreto di microeradicazione del virus HCV nei migranti, tenuto conto di una distinzione nell’iter diagnostico-terapeutico tra la persona non italiana presente stabilmente sul territorio nazionale rispetto al migrante che sosta solo temporaneamente qui, quindi le parole chiave sono iterazione e condivisione di un progetto di salute, affinché le cure che proponiamo possano essere accettate come un’opportunità di aiuto dal migrante. Questo ci permette di cogliere, nello spazio temporale contingente della permanenza dei migranti, la possibilità di curarli, ma ci vogliono anche strumenti economici per supportare l’opera dei mediatori che ad ora lavorano volontariamente o in modo precario, poiché sono un anello fondamentale per un approccio adeguato ad altre culture e, quindi, per l’effettiva possibilità di attivare la catena di cura”.
“E” necessario – afferma il prof. Vito Di Marco – organizzare dei modelli di gestione clinica dei pazienti con epatite cronica da HCV, in modo che siano semplici, veloci e ugualmente applicabili ai cittadini siciliani e agli immigrati che soggiornano in Sicilia per pochi mesi. La rete HCV Sicilia, che è diventata un modello di best practice in Europa, ha la struttura ed i mezzi per gestire la terapia antivirale di tutti i pazienti residenti in Sicilia. I farmaci oggi disponibili guariscono oltre il 95% dei pazienti, non provocano effetti collaterali e sono somministrati per 8 o 12 settimane. La collaborazione con gli ambulatori delle ASP che si occupano della salute dei migranti e con le strutture di accoglienza che li aiutano ad inserirsi nel nostro ambiente sociale è fondamentale per gestire con appropriatezza ed efficacia tutti coloro che hanno questo problema. Inoltre, la rete ci da la possibilità di valutare nel tempo e con precisione i risultati della terapia”.
Fabio Cartabellotta, coordinatore rete HCV Sicilia aggiunge: “Sarebbe opportuno concentrarsi preliminarmente sulla necessità di testare le persone migranti, individuare il momento più agevole per fare il test, misurare il numero di infezioni e poi rinviare ad un momento successivo le valutazioni del percorso di cura”.
In altre parole tutti segnalano come prioritario il momento dell’approccio. Il problema come hanno testimoniato anche gli esponenti delle Ong ed i rappresentanti delle diverse etnie, che si sono confrontati in un’apposita tavola rotonda, moderata dal dr. Francesco Di Lorenzo (ARNAS) e dalla giornalista Maria Grazia Elfio è quello di superare ostacoli di comprensione culturale.
Sul punto la dottoressa Ornella Dino, ASP 6, afferma: “Prima di un approccio scientifico occorre parlare di approccio umano e culturale. Poter curare il migrante significa spiegargli cosa stiamo facendo, poiché spesso in altre culture anche il semplice prelievo di sangue viene visto come un vulnus all’anima. Noi andiamo nei centri di accoglienza, ascoltiamo storie, entriamo in contatto prima con le persone ed il loro vissuto, poi facciamo gli screening. Il migrante non è avvezzo al concetto di portatore sano di una malattia: proporgli la somministrazione di una terapia quando non si sente malato, perché non ha sintomi, non è semplice e occorre trovare linguaggi che ci mettano in comunicazione con il suo mondo. Questo sistema funziona grazie all’opera dei mediatori culturali. E’ un lavoro di squadra”. Per Francesco Vitale – presidente della Scuola di Medicina dell’Università di Palermo, che ha portato il saluto del Magnifico Rettore Fabrizio Micari, va ricordato che: “ La prima esigenza a cui rispondere è quella dell’accoglienza. Il migrante non viene qui per farsi curare, ma viene qui perché scappa da situazioni drammatiche. Bisogna, pertanto, investire sulla formazione dei medici in modo che siano attrezzati a proporre l’offerta assistenziale con linguaggi comprensibili, ma anche affinché possano opportunamente destreggiarsi nei pantani burocratici e nelle normative vigenti sul punto ”.
Mentre il prof. Massimo Colombo di EASL (European Association for the Sudty of the Liver ) ha sottolineato l’impegno per l’eliminazione del virus nell’Unione Europea. Lidia Tilotta, giornalista Rai, ha aperto la prima parte dei lavori condividendo alcune drammatiche testimonianze di migranti raccolte nel corso della sua esperienza di cronista a Lampedusa. Erano presenti tra gli altri Giovanni Migliore, commissario Arnas Civico di Palermo, Toti Amato, presidente Ordine dei Medici di Palermo, oltre a Fra Alberto Angeletti Padre Superiore dell’Ospedale Buccheri La Ferla.