La demenza è una sindrome clinica degenerativa che si caratterizza per la progressiva perdita di funzioni intellettive precedentemente acquisite (memoria, linguaggio, ragionamento, orientamento, attenzione, prassie e gnosie).
Tale perdita pregiudica l’autonomia del paziente e causa un disagio clinicamente significativo non solo al paziente, ma anche al caregiver che deve farsi carico dell’assistenza del familiare. Il tipo di demenza più conosciuta è sicuramente quella di Alzheimer, ma ne esistono molti altri tipi (per es. demenza dei corpi di Lewy, demenza fronto-temporale; demenza vascolare e malattia di Pick).
Qualsiasi tipo di demenza è il risultato di due eventi: la morte delle cellule nervose cerebrali e/o un loro malfunzionamento a livello di comunicazione intercellulare.
La demenza insorge solitamente durante la fase dell’invecchiamento, ma non va confusa con l’invecchiamento normale.
La prevalenza della demenza nei Paesi industrializzati è circa del 8% negli ultra sessantacinquenni e sale ad oltre il 20% dopo gli ottanta anni. Secondo alcune proiezioni, i casi di demenza potrebbero triplicarsi nei prossimi 30 anni nei paesi occidentali, motivo per cui la demenza è stata definita secondo il Rapporto OMS e ADI una priorità mondiale di salute pubblica.
L’eziopatogenesi della demenza non è ancora stata stabilita con certezza e in modo chiaro. Sono stati individuati molteplici fattori di rischio, tra i quali: età, familiarità, fattori genetici; traumi cranici; neoplasie; cause endocrinologiche e metaboliche; alimentazione non equilibrata e sana, stili di vita scorretti.
Recentemente tra i possibili fattori di rischio per l’esordio di tale patologia è stato indagato l’uso prolungato di alcuni farmaci che potrebbero avere effetti negativi sulle capacità cognitive e aumentare il rischio di demenza.
Si tratta nello specifico di farmaci utilizzati contro la depressione. Lo suggerisce uno studio che ha coinvolto quasi 72 mila persone, pubblicato su The American Journal of Geriatric Psychiatry. I partecipanti sono stati monitorati per parecchi anni di seguito e i ricercatori dell’Università di Haifa dove è stato condotto il lavoro hanno registrato l’uso di antidepressivi nel campione.
Nel corso del tempo 2.175 persone hanno sviluppato una forma di demenza. La quota di coloro che hanno preso antidepressivi e si sono ammalati in seguito di demenza è dell’11% contro appena il 2,6% delle persone che non hanno usato quei farmaci negli anni precedenti. In conclusione l’uso di antidepressivi potrebbe più che triplicare il rischio di sviluppare una forma di demenza in futuro.
Alla luce di questo studio è auspicabile che i clinici tengano conto delle conseguenze potenzialmente negative dell’esposizione prolungata agli antidepressivi. Infatti il ricorso a prescrizioni di psicofarmaci è in crescente aumento nel mondo, mentre decrescente è la media dell’età di assunzione, essendoci ormai una ampia diffusione anche tra gli adolescenti e i bambini.
In realtà gli antidepressivi, come da linee guida dell’American Psychiatric Association, andrebbero primariamente impiegati nel trattamento dell’episodio depressivo, che è una condizione clinica piuttosto definita in termini di sintomi, gravità e decorso.
Nei soggetti depressi il trattamento accelera la remissione dei sintomi; viceversa, nei soggetti con depressione sottosoglia, minore, lieve e in tutte le circostanze di umore deflesso in assenza di depressione maggiore, l’efficacia degli antidepressivi non è dimostrata.
Nella pratica clinica, quindi, vi sono situazioni chiare, caratterizzate da importanti episodi depressivi, che richiedono un adeguato trattamento, ma anche situazioni meno chiare, dai contorni sfumati, in cui caso per caso é necessario valutare pro e contro del trattamento antidepressivo.
In questi casi vi deve essere consapevolezza che gli antidepressivi sono gravati da effetti collaterali, e che esistono altre modalità terapeutiche, indicate dalle linee guida (APA), quale ad esempio la psicoterapia.