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Psicopatologia della Fase 2: sindrome della capanna e altro

Sono 300.000 i nuovi casi che come Società italiana di Psichiatria abbiamo previsto come conseguenza dell’emergenza SARS-COVID-2. Un’area estremamente ampia di disagio clinicamente significativo che sta creando una sorta di emergenza parallela che si affianca a quella sanitaria, con la differenza che mentre questa sembra stia gradatamente declinando, l’emergenza psichiatrica è in fase di piena progressione, determinando una quantità di problematiche di non facile gestione clinica e assistenziale, non ultimo per la protratta limitazione delle attività ambulatoriali. Vediamo di definire un inquadramento di queste differenti forme di disturbi psichici. La prima considerazione riguarda la comprensione delle reazioni emotive sollecitate da una condizione, non solo percepita come minaccia per la vita, ma anche mai sperimentata né immaginata possibile in precedenza. Quindi non solo un attacco alla sicurezza personale e collettiva ma anche il venir meno di tutti quei punti di repere che in qualsiasi condizione pericolosa o emergenziale “abituale” consentono di avere a disposizione strumenti psicologici di controllo, utili per arginare l’incertezza, la preoccupazione, l’angoscia. Questa riflessione ci offre una chiave di lettura di una parte importante della patologia psichiatrica emergente nella Fase2 che riguarda disturbi psichiatrici dello spettro fobico-ansioso, fobico-ossessivo, panico-agorafobico. Non solo si sta rilevando una presentazione de novo di tali disturbi, ma anche una recrudescenza di patologie già presenti in anamnesi, ma che adesso si riattualizzano con livelli di gravità più elevati che nel passato. La ragione di questi quadri clinici con sintomatologia molto aggressiva, specialmente nell’area fobico-ossessivo-compulsiva, è quasi certamente legata al fatto che la quarantena prima, la Fase2 dopo, hanno determinato a livello psicologico una intensa, pressante e costante prescrizione di regole, norme, divieti (per altro spesso indispensabili) che nel loro insieme coincidono con le modalità specifiche del pensiero e del comportamento fobico-evitante e della ritualità ossessivo-anancastica. Anche in questa fase quindi, la corretta adesione alle norme di profilassi implica un orientamento attentivo, ideativo, percettivo e comportamentale caratteristico delle condizioni nevrotiche che rientrano nelle aree che abbiamo appena descritto. In altri termini per una corretta prevenzione del contagio dobbiamo essere in grado di esercitare quasi costantemente una forma di ipercontrollo che riproduce buona parte dell’atteggiamento mentale dei pazienti ossessivi. Questo può spiegare la particolare virulenza che stiamo notando nelle turbe ossessive che si stanno presentando in questi giorni e che viene continuamente elicitata dalla rigorosa modalità prescrittiva che caratterizza la comunicazione istituzionale e sanitaria. La componente fobica di questi quadri psicopatologici tende anche a ribaltarsi in una sindrome di tipo claustrofilico, una situazione cioè nella quale la persona presenta notevoli difficoltà, nei casi più gravi insormontabili, a uscire da casa dopo 2 mesi di lockdown, e a riprendere le normali attività esterne. Tale problematica, che ha diversi livelli di gravità, sino a forme più sfumate di tipo subclinico, è stata denominata “Sindrome della capanna” richiamando quanto avveniva a fine ‘800 tra i cercatori d’oro del Klondike (ma anche in Nevada, Colorado, California) per la difficoltà che essi avevano a ritornare alla civiltà dopo parecchi mesi trascorsi in una baracca in prossimità di un fiume o di una miniera. Le presentazioni della sindrome vanno quindi dalle forme più gravi, nelle quali si manifesta una totale e radicale impossibilità a varcare la soglia di casa, tale è l’angoscia di affrontare di nuovo il mondo esterno o di potersi contagiare, a condizioni meno intense, sotto-soglia, nelle quali si manifesta – con gradi di pervasività differenti – un disagio che, seppure non in grado di determinare una barriera che impedisce di uscire di casa, riveste comunque un interessante significato psicologico. Tali situazioni infatti, più comuni di quanto si possa immaginare, segnalano con chiarezza le dinamiche psicologiche che si sono attivate durante il confinamento domestico che ha comportato per molti, oltre a una forte percezione di protezione e sicurezza all’interno delle mura domestiche, anche un movimento regressivo, a volte con qualche sfumatura nostalgica del passato e non privo, a tratti, di una qualche spinta creativa. Alcune di queste condizioni richiedono un’attenzione particolare dal punto di vista clinico perché è importante che quello che abbiamo vissuto come un rifugio rassicurante non rischi di diventare una prigione dalla quale non si può più evadere! Al di là degli effetti clinici definiti, la pandemia ha comunque contribuito a danneggiare la vita psichica di molti soggetti: ha prodotto nuove paure oltre ad avere intensificato quelle già esistenti nell’area fobico, ossessiva, depressiva, ipocondriaca; inoltre sta aumentando l’intolleranza verso gli estranei e i diversi, sta determinando un aumento della suscettibilità agli eventi stressanti e alle frustrazioni e alcuni segnali recenti ci indicano che potrebbe anche  determinare una maggiore propensione alla violenza individuale e sociale. Infine bisogna sottolineare che tutta l’esperienza complessiva dell’evoluzione della pandemia da SARS-COV-2 rappresenta la più estesa e intensa condizione psicotraumatica mai vissuta al mondo e ha messo terribilmente a dura prova le capacità umane di elaborare lo stress e trovare modalità di adattamento funzionale a una condizione di minaccia difficilmente controllabile. Il virus, sotto questa prospettiva, ha quindi costituito un elemento di compromissione della vita mentale e quindi, in modo più esteso, della qualità della vita stessa. A noi sanitari il compito, non facile, non solo di gestire l’emergenza sanitaria in prima fila, ma anche quello di diffondere in tutti gli ambiti specialistici, in un periodo di così pervasivo disagio psichico, “un’epidemia di empatia come scrivono in un recentissimo lavoro su Frontiers in Psychology S. Barello e G. Graffigna tenendo conto che mai come ora i nostri pazienti, tutti i nostri pazienti, possono giovarsi al massimo di una speciale capacità di contenimento e di supporto emozionale; essi, ancora di più di prima, necessitano di una presa in carico sicura e rassicurante, contenitiva e incoraggiante, che permetta anche di lenire l’effetto disorientante e la vulnerabilità psicosociale determinati dalla pandemia. Che, in altre parole, può voler dire una sapiente ed efficace armonia di scienza ed umanesimo, della dimensione digitale dell’accuratezza e del rigore scientifici, con quella analogica della competenza umana ed affettiva, come ci viene indicato dalla ineludibile componente umanistica dell’Arte medica.

Daniele La Barbera, ordinario di Psichiatria, Università di Palermo

di Redazione
© Riproduzione Riservata
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