Cari Lettori,
l’argomento di oggi verte su un tema il cui interesse, non solo nella comunità medico-scientifica, ma anche nella popolazione sensibile ai temi della salute, sembra crescere costantemente da almeno un ventennio: il microbiota.
Facciamo subito qualche precisazione terminologica. I termini microbiota e microbioma sono spesso usati come sinonimi. Tuttavia, sono due entità separate: microbiota è un termine che va usato per descrivere le popolazioni microbiche specifiche (in termini non solo di batteri, ma anche di archaea e virus) che si trovano all’interno di un organo cavo specifico (ad esempio, l’intestino o i bronchi). Il termine microbioma, invece, si riferisce all’insieme di tutti i geni (in termini di acidi nucleici) di questi microrganismi presenti nel nostro corpo.
Sebbene sia spesso affermato che i due termini siano stati “coniati ” dal microbiologo premio Nobel Joshua Lederberg nel 2001, in realtà neanche questo non è corretto, semplicemente perché entrambi sono termini microbiologici di base che erano già di uso comune molti decenni prima di divenire così ampiamente utilizzati come oggi.
In questo breve articolo parleremo solo del microbiota, e lo faremo – ovviamente – dal punto di vista dell’anatomista.
Tanto per cominciare, il microbiota non è un organo. Si sente infatti spesso dire questa affermazione: << il microbiota è un organo dentro un organo >>, essendo il secondo a cui ci si vorrebbe riferire l’intestino. Sarebbe bene precisare il concetto di “organo” in anatomia: è un’entità anatomica costituente l’organismo ma isolabile dallo stesso, di cui se ne possono descrivere la sede, la forma, i rapporti e la struttura, inquadrandola poi in due macrocategorie: organi cavi (ad esempio la vescica) e organi pieni (o parenchimatosi, ad esempio il rene), caratterizzandosi i primi per la conformazione della parete che circonda la cavità e i secondi per le unità morfofunzionali che costituiscono il parenchima.
Conoscere sede, forma e rapporti di un organo è alla base, ad esempio, dell’approccio clinico del medico al paziente: senza queste informazioni diventa molto difficile visitarlo e orientarsi tra i diversi sintomi riferiti o i segni riscontrati. La struttura è invece alla base della comprensione sia della funzione (in termini fisiologici e biochimici), sia dei processi che portano un organo ad ammalarsi (processi fisiopatologici), sia della terapia (esempio, quella farmacologica). E abbiamo già detto – in una precedente puntata di questa rubrica – quanto sbagliato e confondente sia attribuire il termine di “organo” a strutture che non lo sono affatto (come ad esempio l’interstizio, vedasi: https://www.sanitainsicilia.it/gocce-anatomia-falsi-scoop-problemi-delletica-dei-finanziamenti-nella-ricerca-scientifica_408096/). Pertanto, abbandoniamo il concetto che il microbiota possa essere classificato come “organo”, in quanto questo è proprio errato.
Al più, essendo un insieme di “elementi corpuscolati”, potrebbe essere classificato come “tessuto”, un tessuto tuttavia assai diverso dai quattro che convenzionalmente vengono descritti come costituenti il corpo umano, ossia quelli epiteliale, connettivale, muscolare e nervoso. Il termine “xenotessuto microbiotico” (dal greco ξένος, ossia “straniero” o “ospite”) potrebbe essere accettato dalla comunità scientifica, ma di fatto ancora manca un dibattito a livello internazionale che possa portare all’introduzione di questo termine.
In attesa che ciò accada, noi ci siamo portati un po’ avanti, cercando di inquadrare lo xenotessuto microbiotico nel contesto del microambiente nel quale opera, che – badate bene – non è soltanto il lume intestinale: esistono elementi corpuscolati xenotissutali in tutti gli organi cavi del nostro corpo posti in comunicazione con l’esterno, nonché sulla cute (anche se il discorso per quest’ultima si complica e lo rimanderemo a un’altra puntata della rubrica).
Per quanto riguarda gli organi cavi, negli ultimi anni col mio gruppo di ricerca abbiamo centrato l’attenzione non solo sul canale alimentare, ma anche sulle vie aeree (e in particolare quelle inferiori, ossia laringe, trachea e bronchi). Entrambi sono caratterizzati dalla presenza di un film di muco a rivestirne la superfice. Il muco è un liquido denso – costituito prevalentemente da acqua e glicoproteine – prodotto dalle cellule più prospicenti il lume (ossia quelle cellule epiteliali che si sono specializzate proprio a produrre questo muco), e che costituisce l’impalcatura fisiologica per creare quel microambiente più adatto alla sua colonizzazione da parte di questi elementi xenotissutali.
Pertanto, il microbiota intestinale, come quello bronchiale, vive e prolifera in questo muco, scambiandosi informazioni con le cellule “umane” attraverso molecole solubili e nanovescicole. E se è facile intuire che, nell’intestino, questi elementi xenotessutali siano sottoposti a continuo rinnovamento grazie al transito intestinale da una parte e al cibo che introduciamo dall’altra, non dovrebbe essere complesso comprendere che anche il microbiota delle vie aeree viene costantemente rinnovato, se è vero (come è vero) che il muco prodotto a livello bronchiale non ristagna ma viene spinto (da un altro citotipo del suo epitelio, ossia le cellule ciliate) a risalire verso l’esterno, mentre altri elementi vi giungono attraverso le vie aeree superiori.
Questo ricambio è fondamentale, perché il ristagno – in un organo o nell’altro – produce un’eccessiva proliferazione soprattutto dei microrganismi più aggressivi, scatenando potenziali infezioni e conseguenti risposte immunitarie (e autoimmunitarie). Questo è il motivo per cui è importante, ad esempio, fornire al nostro intestino un’alimentazione sana e ricca di fibre, e al contempo non irritare le vie aeree attraverso il fumo: entrambe le circostanze producono non solo un’alterazione della qualità e della quantità dei microrganismi presenti nel nostro microbiota, ma anche un’alterazione strutturale di quel muco che ne costituisce il fisiologico microambiente.
Avendo compreso ciò, e guardando adesso con più attenzione al microambiente nel quale il microbiota vive, recentemente abbiamo coniato (ed è stato accettato dalla letteratura scientifica) il termine di “strato muco-microbiotico” per riferirci proprio all’insieme del muco, del microbiota e delle vescicole extracellulari che si trova a tappezzare internamente alcuni organi cavi, come ad esempio l’intestino e i bronchi. L’importanza di caratterizzare terminologicamente questo strato, adoperando i corretti canoni morfologici, sta nel fatto che in questa maniera si riesce a inquadrare meglio questa struttura nella fisiologia e nella fisiopatologia umana.
Per fare qualche esempio, le malattie infiammatorie croniche intestinali (ossia la rettocolite ulcerosa e il morbo di Crohn), così come la broncopneumopatia cronica ostruttiva (insieme di malattie una volta definite enfisema e bronchite cronica), sono patologie caratterizzare da periodi di remittenza e di riacutizzazione. Migliaia sono i lavori scientifici che mostrano ormai chiaramente il ruolo che ha il microbiota nell’alternanza tra le due fasi. Un’alterazione delle percentuali dei microrganismi che lo compongono, così come della qualità del muco che li ospita, è infatti alla base delle recidive di queste malattie, così come il ripristino del fisiologico equilibrio di questi elementi xenotissutali (e delle caratteristiche chimico-fisiche del muco) coadiuva qualsiasi terapia antinfiammatoria volta a contrastarle.
Fornire, in primis, allo studente di medicina o discipline biomediche, nonché al ricercatore e al medico, il corretto inquadramento morfologico di questo elemento costituente il corpo umano, significa dargli tutti gli elementi di base per poterlo studiare e comprenderne la fisiologia e la fisiopatologia in termini coerenti ed efficaci, con la speranza – ad esempio – di poter trovare un rimedio per allungare i periodi di remissione e ridurre le fasi di recidiva di queste malattie. Ecco perché abbiamo coniato questo termine che speriamo trovi spazio in futuro anche nei testi di anatomia più tradizionali.
Infine, abbiamo accennato alle vescicole extracellulari, il terzo costituente dello strato muco-microbiotico. Tra esse ci sono le cosiddette nanovescicole, prodotte tanto dalle cellule umane quanto da quelle batteriche. Esse sono in grado non solo di “scambiare messaggi” di natura biochimica tra queste due tipologie di elementi cellulari, ma anche di “veicolarli” a distanza tramite il torrente ematico, potendo queste nanovescicole raggiungere virtualmente tutti gli organi del nostro corpo, compresi quei cosiddetti “santuari” (le cellule nervose e i tubuli seminiferi delle gonadi maschili, ad esempio), ossia territori protetti da “barriere” cellulari che rappresentano un filtro per molte sostanze circolanti liberamente nel sangue ma non per queste nanovescicole.
Si sente molto spesso parlare dell’asse intestino-cervello come dell’insieme di collegamenti nervosi e umorali tra questi organi. Ebbene, le nanovescicole dello strato muco-microbiotico intestinale sono un ulteriore strumento di comunicazione tra questi organi, e sapere che le nanovescicole prodotte dai batteri che popolano il nostro tubo digerente possano influire sul funzionamento del nostro cervello potrebbe non essere gradito a molti ma è una incontrovertibile realtà alla quale ci si deve in ogni caso rassegnare.