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Covid tra Omicron e indiana, cosa succede e cos’è questa nuova variante? Risponde l’infettivologo Colletti

I contagi da Covid sono in costante aumento e continuano ad emergere nuove varianti. L’ultima volta in cui sono stati così numerosi risale al 2 febbraio, pochi giorni dopo il picco dell’ondata della variante Omicron. Superare in estate la soglia dei centomila nuovi casi al giorno è la prova che l’ipotesi del virus stagionale non può essere più applicata.

Le varianti appaiono e attraversano il pianeta nel giro di pochi giorni, infatti mentre la variante Omicron 5 deve ancora raggiungere il suo picco di diffusione, ce n’è già un’altra sulla rampa di lancio: è la nuova variante indiana che risulta essere molto più contagiosa.

Ad approfondire l’argomento è Pietro Colletti, infettivologo responsabile dell’Unità operativa complessa Malattie Infettive dell’ospedale “Paolo Borsellino” di Marsala: “È una variante che deve essere sottoposta ad un attento monitoraggio. È chiaro che, per come si comporta il virus, che proviene da zone in cui verosimilmente c’è molta della popolazione non vaccinata, si diffonderà rapidamente e poi queste varianti POSSONO prendere il sopravvento“, spiega.

Attualmente l’Oms sta monitorando l’eventuale diffusione in altri paesi: esistono organizzazioni di monitoraggio europee e soprattutto italiane che raccolgono i dati: “Questa variante parrebbe avere un alto tasso di diffusibilità. Sono delle varianti, come dice lo stesso modo, che variano i loro siti di attacco alle cellule dell’uomo e quindi possono essere più infettanti e possono anche trovare una popolazione non protetta. Questi sono dati epidemiologici che vengono realizzati da fatti concreti“, continua.

In questo momento in Italia e in Sicilia ci sono le sotto varianti Omicron con la Ba.5 come maggiormente diffusa. La nuova nuova è tecnicamente definita col nome Ba.2.75: “La situazione attuale è che il virus sta circolando tantissimo per le mutate varianti e per le mutate condizioni di protezione. Fortunatamente però sta trovando una popolazione con un altissimo tasso di vaccinazioni, quindi continua ad infettare però la malattia Covid con polmoniti severe attacca un numero enormemente ristretto di casi rispetto ai positivi“.

Chi ha bisogno di accedere ad un ospedale per qualunque motivo di salute fa parte di questa popolazione e ad oggi con le direttive in vigore questi pazienti vanno isolati: “Deve essere cambiato il modello organizzativo del servizio sanitario nazionale e regionale – prosegue Colletti – perché il paziente, a questo punto, è prevalentemente asintomatico dal Covid ma con le altre malattie che lo portano in ospedale. Si devono trovare quindi dei modelli assistenziali dove il paziente è assistito negli stessi reparti in cui andrebbe se non avesse il virus“.

Per questo motivo tutti gli ospedali e tutti i reparti specialistici dovrebbero avere delle zone in cui possono, senza particolare complicazione, essere ricoverati questi pazienti: “È un aspetto fondamentale, infatti ci si sta muovendo per creare dei sistemi in cui al centro c’è il paziente e dove venga normalizzata l’assistenza a chi ha tampone positivo. Qualcosa nella provincia di Trapani è già stato fatto e anche a livello regionale“, aggiunge.

Le nuove varianti hanno spodestato la cura con gli anticorpi monoclonali: “Da febbraio abbiamo la disponibilità di almeno tre antivirali, di cui due per bocca, la cui assunzione nel paziente con alto fattore di rischio (per comorbilità, sovrappeso, età, etc…) possa far progredire la malattia. Questi antivirali funzionano indipendentemente dalla variante del caso e sono efficacissimi e sicurissimi: devono però essere assunti nei primissimi giorni dell’infezione“.

I nuovi antivirali sono disponibili: uno di questi è anche prescrivibile dal medico di base: “Bisogna sensibilizzare tutti quelli che possono prescrivere questo farmaco a rispondere a questo bisogno di salute, perché la sua assunzione riduce fino all’88% la possibilità di ospedalizzazione. In questo momento il numero degli antivirali prescritti in Italia è assolutamente non commisurato al numero delle persone positive con fragilità, cioè è stimato che soltanto l’1% o 2% dei soggetti positivi assumono questo farmaco su un 20% \ 30%”, conclude Colletti.

 

di Paola Chirico
© Riproduzione Riservata
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