“Il momento che stiamo vivendo per l’Alzheimer mi ricorda qualcosa che vissi da giovane studente di medicina: l’arrivo della dopamina per curare il Parkinson. A quei tempi il Parkinson era incurabile, era una condanna. I primi pazienti che hanno preso la dopamina hanno ricominciato a muoversi e hanno vissuto una seconda vita. Speriamo che accada presto qualcosa di analogo per l’Alzheimer”. Paolo Maria Rossini, responsabile del dipartimento di Scienze neurologiche e riabilitative dell’Irccs San Raffaele Roma descrive così il clima che si registra nel campo della malattia di Alzheimer in occasione della Giornata Mondiale dedicata alla malattia che si celebra il 21 settembre.
L’entusiasmo è legato all’avvento di nuovi farmaci che per la prima volta sembrano incidere sul decorso della malattia, inducendo un importante rallentamento. Due di questi medicinali sono già stati approvati in Usa, mentre in Europa il primo ok potrebbe arrivare tra non molto tempo. I nuovi farmaci agiscono sulle proteine (beta-amiloidi) che danno origine alle placche caratteristiche dell’Alzheimer e, anche se non è ancora chiaro se ciò si traduca in un miglioramento delle condizioni del malato, tutto fa però pensare che rappresenteranno una svolta.
Questa nuova opportunità, tuttavia, apre nuove sfide per la sanità. “Non dobbiamo trasmettere inutili illusioni”, ammette Raffale Lodi, direttore dell’Irccs Istituto Scienze Neurologiche di Bologna. “Le terapie sono efficaci, ma solo su una parte dei pazienti”. La loro efficacia è massima efficacia nelle primissime fasi della malattia, quando il cervello conserva almeno una parte della sua straordinaria plasticità. La difficoltà è dunque identificare i pazienti che possono beneficiare dei trattamenti prima ancora che compaiano i segni conclamati della malattia.
L’Italia nel 2018 ha lanciato un progetto di ricerca (Iterceptor) che vuole capire se alcuni biomarcatori, rilevati in fase precoce, sono in grado di distinguere chi si ammalerà di Alzheimer e chi no. “A breve potremo dire quale è la combinazione di marcatori che prevede chi è a rischio Alzheimer. Sarà così possibile iniziare il trattamento quando il cervello ha una buona riserva cognitiva e non quando ormai è come una piantina che non si annaffia da mesi“, aggiunge Rossini.
Tuttavia potrebbe non bastare: “Senza interventi organizzativi rischiamo di avere alcune realtà italiane che garantiranno l’accesso alle cure e altre in cui ciò non si realizzerà. Ci aspetta un nuovo, importante, lavoro”, precisa l’onorevole Annarita Patriarca, presidente, insieme alla senatrice Beatrice Lorenzin, dell’intergruppo Alzheimer e Neuroscienze. C’è poi il problema delle risorse, a cominciare da quelle da destinare ai nuovi farmaci. “Anni fa abbiamo vissuto un’esperienza simile con l’epatite C”, dice Lorenzin. “Oggi abbiamo guarito più di 260 mila persone”. Intanto, le associazioni premano perché venga rinnovato il Fondo per l’Alzheimer e le demenze che è in scadenza a fine anno. Sono 15 milioni, “una prima garanzia nella costruzione della rete per l’Alzheimer”, conclude Lorenzin.
LA MALATTIA DI ALZHEIMER
La malattia di Alzheimer è la più comune forma di demenza. Insorge più frequentemente dopo i 65 anni di età e colpisce più spesso le donne. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità nel mondo oltre 55 milioni di persone convivono con la demenza e si stima il numero possa raggiungere i 78 milioni entro il 2030. In Italia, secondo stime dell’Istituto Superiore di Sanità, circa un milione e 100 mila persone soffrono di demenza; tra essi, 600mila sono malati di Alzheimer.
Nel campo dell’Alzheimer “cominciamo a intravedere una qualche soluzione, ma i problemi restano ancora grandi. Mentre cerchiamo di risolverli, quest’anno per la Giornata Mondiale ci focalizziamo sulla riduzione del rischio. Ci sono nuovi dati, infatti, che suggeriscono che ci potrebbe essere un rallentamento o addirittura una diminuzione dei casi del 40%. Se pensiamo che nel 2050 raggiungeremo i 139 milioni di casi nel mondo, ciò equivale a una riduzione di 55 milioni di casi”, ha affermato Paola Barbarino, Ceo Alzheimer Disease International, la federazione internazionale delle associazioni per l’Alzheimer e la demenza di tutto il mondo, durante una conferenza stampa al Senato, promossa dall’intergruppo Parlamentare Alzheimer e Neuroscienze. È possibile ottenere questo risultato, ha affermato Barbarino, intervenendo su 12 fattori di rischio. “Per alcuni di essi è necessario agire come società, per esempio la mancanza di istruzione o l’inquinamento. Il resto possiamo farlo noi: mangiando meglio, non fumare, bere con moderazione, fare esercizio”. Resta tuttavia il problema della consapevolezza: “Troppo pochi sanno che usare l’apparecchio per l’udito o evitare di isolarsi continuando a socializzare anche da anziani sono strategie efficaci per ridurre il rischio di Alzheimer. Inoltre, nel nostro rapporto mondiale del 2019 abbiamo scoperto che il 62% degli operatori della salute nel mondo pensano che demenza e l’Alzheimer non siamo malattie, ma conseguenze dell’invecchiamento. È un grande problema su cui dobbiamo lavorare”, ha concluso Barbarino.