Nella malattia di Alzheimer alcuni neuroni hanno un escamotage per sfuggire alla morte: la scoperta di base, frutto di uno studio dell’Università Campus Bio-Medico di Roma e dell’IRCCS Santa Lucia di Roma, potrebbe in futuro portare a suggerire nuove vie per rallentare il decorso della malattia.
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Molecular Neurodegeneration, diretto da Marcello D’Amelio, ordinario di Fisiologia umana all’Università Campus Bio-Medico di Roma e Responsabile del laboratorio di Neuroscienze Molecolari della Fondazione Santa Lucia IRCCS e finanziato da Fondazione Roma e Alzheimer’s Association USA per Università Campus Bio-Medico di Roma e Ministero della Salute per IRCCS Fondazione S. Lucia.
Lo studio è stato svolto insieme a ricercatori dell’Università Politecnica delle Marche, dell’Università Cattolica di Roma e dell’Università di Roma “Tor Vergata“. Gli esperti hanno scoperto un meccanismo attraverso il quale i neuroni di una specifica area del cervello (tegmentale centrale) si proteggono dalla morte causata dall’accumulo di calcio al loro interno. Il meccanismo si basa su una molecola che cattura il calcio, la calbindina.
Nel cervello con Alzheimer la morte dei neuroni dell’area tegmentale ventrale avviene a causa di un eccessivo accumulo di calcio, dovuto alla perdita dei mitocondri, le centraline elettriche delle cellule. “L’Area tegmentale ventrale (VTA) – spiega D’Amelio – conta appena 400-500mila neuroni, un numero molto piccolo rispetto ai 100miliardi di neuroni che compongono l’intero cervello. Questi neuroni sfuggono alla morte, almeno nelle prime fasi di malattia attraverso un’aumentata espressione di un fattore cellulare, la calbindina, che è in grado di neutralizzare la tossicità del calcio che si accumula nei neuroni sofferenti“.
Tuttavia, alcuni neuroni di questa regione riescono, almeno durante la prima fase di malattia, a compensare il danno da accumulo di calcio attraverso l’aumento dell’espressione della calbindina, proteina nota per le sue capacità di legare il calcio. “L’identificazione di questa forma di risposta al danno neuronale – conclude D’Amelio – aggiunge preziosi dettagli sulle modalità attraverso cui la malattia si sviluppa e, al tempo stesso, offre ulteriori spunti di ricerca per la prevenzione e trattamento della malattia“.